di Charles Baudelaire da “I fiori del
male” (Les fleurs du mal), 1857-1861
Ricordate, anima mia, la cosa che
vedemmo
quel cosi dolce mattino d’estate;
alla svolta d’un sentiero un infame
carogna
su un giaciglio cosparso di sassi,
le gambe all’aria, come una donna
impudica,
ardente e trasudante veleni,
spalancava in modo cinico e
disinvolto
il ventre pieno d’esalazioni.
Il sole irradiava questo putridume,
come volesse cuocerlo a puntino,
e rendere centuplicato alla grande
Natura
tutto ciò che essa aveva congiunto;
e il cielo osservava la superba
carcassa
schiudersi come un fiore.
Talmente forte era il fetore, che
sull’erba
vi sentiste svenire.
Le mosche ronzavano sopra quel ventre
putrido,
da cui uscivano neri battaglioni
di larve, che colavano come un
liquido denso
lungo quei brandelli di vita.
Il tutto scendeva e risaliva come un
onda
o si slacciava gorgogliando;
si sarebbe detto che il corpo,
gonfiato da un vago soffio,
vivesse moltiplicandosi.
E questo mondo produceva una strana
musica,
come l’acqua corrente e il vento,
o come il grano che il vagliatore con
movimento ritmico
gira e agita nel vaglio.
Le forme svanivano e non erano più
che un sogno,
un abbozzo lento a venire
sulla tela dimenticata che l’artista
completa
solamente con la memoria.
Dietro le rocce una cagna inquieta
ci guardava con occhio crucciato,
aspettando il momento per riprendere
allo scheletro
Il boccone che aveva lasciato.
Eppure voi sarete simile a questa
sozzura,
a quest’orribile infezione,
stella dei miei occhi, sole della mia
natura,
voi, mio angelo e mia passione!
Si! tale sarete, o regina delle
grazie,
dopo gli ultimi sacramenti,
quando andrete sotto l’erba e i
rigogliosi fiori,
a marcire tra le ossa.
Allora, o mia bellezza! dite ai vermi
che vi mangeranno di baci,
che ho conservato la forma e l’essenza
divina
dei miei amori disfatti.
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